La luce del sole si levava lieve, quella mattina. Era un’alba di fine ottobre. Un mattino bigio, nell’aria il profumo della pioggia, il suono delle onde scomposte dal vento, il mare era mosso.
Sul grande letto bardato di candidi pizzi e ornato d’organza da sposa, giaceva Pinocchio, finalmente sveglio, scampato al pericolo della morte che, tuttavia, gli alitava ancora attorno, sottoforma di medici con grevi maschere della peste. Il Grillo Parlante, La Civetta ed il Corvo: tutti incombevano sul piccolo malatino. Gli orrori a cui era scampato, erano molti. Prima il gatto e poi la volpe, avevano tentato di estorcergli danaro, quel danaro faticosamente guadagnato mettendo su una startup per nonnine importunate dai lupi, con grande fatica, farina del suo sacco. C’aveva quasi creduto, all’esistenza di un albero dei miracoli, dai cui rami d’alabastro e dalle cui foglie di smeraldo crescevano zecchini d’oro pronti a cadere e tintinnare l’uno sull’altro, frutti maturi, presto marci. Quasi… poi, però, la sua innata diffidenza verso tutto e tutti, l’aveva messo in guardia dal cogliere, più che una sonora manciata di monete, una sonora fregatura in piena regola. Prima il gatto e poi la volpe, non avevano preso di buon grado tutto quel buon senso inopportunamente venuto a guastar loro le feste. Così l’avevano appeso ad un albero, e il nodo che gli avevano stretto alla gola, Pinocchio lo sentiva ancora adesso, nonostante il ramo si fosse spezzato per solidarietà verso un fratello consentendogli di svincolarsi e scappare. Quel nodo, non si era mai sciolto. Non si sarebbe sciolto mai. Poi era stata la volta dei giannizzeri. Volevano arruolarlo tra le proprie truppe. L’avevano visto lì, sul ciglio della strada, tutto solo, a riassettarsi i vestiti, a cercare di darsi un contegno. Alto, non lo era di certo. Ma sembrava solido, un burattino tutto d’un pezzo. La pedina ideale da mandare in avanguardia, un pedone resistente e sacrificabile. Nessuno ne avrebbe sentito la mancanza. Fuorché la Fata Turchina. I giannizzeri non l’avevano messa in conto. Avevano fatto, come si suol dire, “i conti senza l’oste”. Quello stesso oste de L’osteria del «Gambero Rosso», in cui Pinocchio aveva cenato tempo addietro con la stessa Fata. Era il loro primo appuntamento, quello vero. Pinocchio ordinò trucioli al porco raro dei Monti Iblei e aceto di vino bianco per lucidare il tutto. La Fata Turchina prese ‘na carbonara come dio comanda e che lo stesso ce la mandi buona, chiese, come amaro di fine pasto. Era una buona cliente, la Fata Turchina. Fu forse per questo, forse per le buone mance, forse per simpatia, che l’Oste le diede manforte, un mattarello di dimensioni olimpiche in mano. Lei, nel vedere quei giannizzeri così spavaldi, con le loro sgargianti uniformi da parata, il loro armamentario di archi e daghe, condurre alla guerra un perfetto sconosciuto a mo’ di carne da macello, solo perché lo stesso pezzo di legno era incapace di tirarsi fuori dalla scacchiera, perse le staffe e bestemmiò forte. Le milizie, scandalizzate ed offese, se la diedero a gambe. Non prima, però, di sferrare una potente scimitarrata ai fili di Pinocchio. Pinocchio, adesso, non aveva più legami. Era ufficialmente un burattino senza fili, padrone di sé stesso.
Capitomboló subito. Non resse allo shock e svenne, privo di quella spina dorsale che nessuno aveva pensato potesse fargli comodo, quando l’avevano scolpito e levigato.Così la Fata Turchina l’aveva raccolto ed accolto nella sua casa. Gli aveva rimboccato le coperte e l’aveva lasciato al dolce oblio del sonno, quello ristoratore dove non sognare è un po’ non rischiare che gli incubi vengano a bussare alla porta della coscienza, a incrinare l’anima annebbiandola di truci spaventi, oscure paure.
Un burattino, dopotutto, non sa sognare.
***
La luce del sole si levava tenue, quella mattina. Era un’alba di fine ottobre. Un mattino bigio, nell’aria il profumo della pioggia, il suono delle onde scomposte dal vento, il mare era mosso.
Pinocchio dischiuse gli occhi lentamente, intorpidito. Lanugini e secrezioni della notte erano rugiada d’ingenuità e d’innocenza perdute. I medici della peste andarono a chiamare la Fata Turchina, ma lei era già pronta con un vassoio di caffè e biscotti al burro, previdente e premurosa come solo una fata sa essere. I dottori con le loro maschere dal becco lungo vollero prima parlarle in privato. Il Grillo Parlante cialtrò di rimorsi ed ancor più di rimpianti. Tentò di giustificarsi, dicendo che c’aveva provato, ma il paziente era già ad uno stadio troppo avanzato del male. La Civetta addusse la propria saggezza come una delle concause al propagarsi del male stesso. Dove mai s’era vista una tale cancrena, regredire per mero buon senso? Certo aveva dato alla Fata delle false speranze, e di questo, era oltremodo mortificata. Il Corvo si limitò ad assentire e a tacere. Sapeva bene che il suo ultimo gracidio sarebbe stato l’allarme della fine. Per qualche minuto, i tre battibeccarono prognosi, sentenziarono giudizi ovvi, infransero speranze. La diagnosi non era certo delle migliori e non lasciava adito a dubbi. La Fata Turchina sorrise loro cortese. Li mandò a casa, ringraziandoli per essere intervenuti con così poco tempismo. La parcella era alta, ma gliel’avrebbero rateizzata e con gli ammortizzatori sociali e gli indennizzi per i casi umani, se la sarebbe cavata con poco. Per la Fata Turchina, queste ed altre agevolazioni. La Fata fece loro notare che la clausola per i casi umani, non era applicabile ad un burattino. I dottori della peste storsero lievemente il becco ed annuirono, comprensivi. Avrebbero valutato se fosse possibile fare un’eccezione. Per la Fata Turchina, questo e altro. La Fata Turchina, sbrigate suddette scartoffie, si accinse finalmente a portare la colazione a Pinocchio. Pinocchio… dal canto suo… aveva sentito tutta la discussione. Ma credete che gli sia balenato anche per una sola frazione di secondo l’idea di alzarsi dal letto e partecipare attivamente alle decisioni sul proprio avvenire, chessò, esprimere la propria opinione, dire la sua? No, bambini. Neanche per idea. Pinocchio si cudduliava nel gran lettone comodo della Fata Turchina, procrastinando il momento in cui non avrebbe più potuto fingersi dormiente. Così, coi suoi occhioni lattei, l’espressione da cucciolo smarrito, quel buon tempone, quel finto tonto di Pinocchio si strofinò le palpebre di cera d’api e finse stupore.
Ebbe l’ardire di chiedere “Fata Turchina, allora, quando diventerò un bambino vero alfine?”
“Ma Pinocchio… davvero non l’hai ancora capito? Un burattino, che ha avuto il dono di essere insignito dal privilegio del tocco d’una fata, la fortuna d’impregnarsi della magia d’un divenire, e non ha saputo apprezzarli, continuando imperterrito sulla stessa cattiva strada lastricata di bugie e cose non dette… non diventerà mai un bambino vero. In effetti… non sei nemmeno uscito fuori dalla bottega di Mastro Ciliegia. Eccoti. Guarda lì, non ti vedi? Quel tronco bisunto e bitorzoluto, dimenticato là, in quell’angolo, in mezzo a tanti altri tronchi identici, anonimi, senza valore? Ecco, quello sei tu. Assieme ad altri fratelli di legno qualunque, proprio come te. Anzi, riflettendoci… non sono proprio come te. Loro, perlomeno, serviranno a qualcosa. Dalle loro venature, nasceranno orologi a cucù, tavoli, sedie, armadi, case di bambole, trottole, giostrine e giocattoli, e svariate altre invenzioni concepite per rendere più gradevole la vita agli esseri umani e chissà, magari restare nei loro ricordi, nei loro cuori. Ma non tu, Pinocchio. Tu, bambino mio, non hai mai veramente voluto partecipare alla vita delle altre persone. Fin da quando il tuo creatore, Geppetto, tentò di nutrirti di bucce di pera e libri e tu, ingrato, ci sputasti sopra. Fin da quando il tuo mecenate, Mastro Mangiafuoco, tentò di farti trovare la strada giusta, nel teatro delle marionette. Ma tu eri troppo poco espressivo e non sapevi come stare sul palcoscenico; eri troppo abituato a mantenere una maschera nella vita di tutti i giorni, un copione che era ormai parte integrante di te, per trasmettere qualcosa di autentico alla gente tra il pubblico. Fin da quando il tuo amico, Lucifero, aveva bisogno di te, e tu gli hai candidamente voltato le spalle, convinto che non prendere le sue parti, fosse l’unico modo per non perdere le tue. La prova del nove, poi, fu quando incontrasti me. E tante buone intenzioni, e tanti buoni propositi, e tante belle cose andate a farsi benedire. Rammenti cosa ne fu di me allora?
QUI GIACELA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI
MORTA DI DOLOREPER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO PINOCCHIO
E quindi, cosa aspettarsi da un simile pezzo di legno? Niente di più e poco di meno che sia buono per arder la legna. Questo, ancora, è un servizio che puoi rendere al mondo. Perciò brucia, caro Pinocchio! E ti auguro che bruciando, il fervore che non hai conosciuto in vita, arrivi alfine ai nodi e ai cerchi del tuo cuore di legno, se ce l’hai.”