Il cambiamento è vita

Ultima

L’ultima occasione di Pinocchio

La luce del sole si levava lieve, quella mattina. Era un’alba di fine ottobre. Un mattino bigio, nell’aria il profumo della pioggia, il suono delle onde scomposte dal vento, il mare era mosso.

Sul grande letto bardato di candidi pizzi e ornato d’organza da sposa, giaceva Pinocchio, finalmente sveglio, scampato al pericolo della morte che, tuttavia, gli alitava ancora attorno, sottoforma di medici con grevi maschere della peste. Il Grillo Parlante, La Civetta ed il Corvo: tutti incombevano sul piccolo malatino. Gli orrori a cui era scampato, erano molti. Prima il gatto e poi la volpe, avevano tentato di estorcergli danaro, quel danaro faticosamente guadagnato mettendo su una startup per nonnine importunate dai lupi, con grande fatica, farina del suo sacco. C’aveva quasi creduto, all’esistenza di un albero dei miracoli, dai cui rami d’alabastro e dalle cui foglie di smeraldo crescevano zecchini d’oro pronti a cadere e tintinnare l’uno sull’altro, frutti maturi, presto marci. Quasi… poi, però, la sua innata diffidenza verso tutto e tutti, l’aveva messo in guardia dal cogliere, più che una sonora manciata di monete, una sonora fregatura in piena regola. Prima il gatto e poi la volpe, non avevano preso di buon grado tutto quel buon senso inopportunamente venuto a guastar loro le feste. Così l’avevano appeso ad un albero, e il nodo che gli avevano stretto alla gola, Pinocchio lo sentiva ancora adesso, nonostante il ramo si fosse spezzato per solidarietà verso un fratello consentendogli di svincolarsi e scappare. Quel nodo, non si era mai sciolto. Non si sarebbe sciolto mai. Poi era stata la volta dei giannizzeri. Volevano arruolarlo tra le proprie truppe. L’avevano visto lì, sul ciglio della strada, tutto solo, a riassettarsi i vestiti, a cercare di darsi un contegno. Alto, non lo era di certo. Ma sembrava solido, un burattino tutto d’un pezzo. La pedina ideale da mandare in avanguardia, un pedone resistente e sacrificabile. Nessuno ne avrebbe sentito la mancanza. Fuorché la Fata Turchina. I giannizzeri non l’avevano messa in conto. Avevano fatto, come si suol dire, “i conti senza l’oste”. Quello stesso oste de L’osteria del «Gambero Rosso», in cui Pinocchio aveva cenato tempo addietro con la stessa Fata. Era il loro primo appuntamento, quello vero. Pinocchio ordinò trucioli al porco raro dei Monti Iblei e aceto di vino bianco per lucidare il tutto. La Fata Turchina prese ‘na carbonara come dio comanda e che lo stesso ce la mandi buona, chiese, come amaro di fine pasto. Era una buona cliente, la Fata Turchina. Fu forse per questo, forse per le buone mance, forse per simpatia, che l’Oste le diede manforte, un mattarello di dimensioni olimpiche in mano. Lei, nel vedere quei giannizzeri così spavaldi, con le loro sgargianti uniformi da parata, il loro armamentario di archi e daghe, condurre alla guerra un perfetto sconosciuto a mo’ di carne da macello, solo perché lo stesso pezzo di legno era incapace di tirarsi fuori dalla scacchiera, perse le staffe e bestemmiò forte. Le milizie, scandalizzate ed offese, se la diedero a gambe. Non prima, però, di sferrare una potente scimitarrata ai fili di Pinocchio. Pinocchio, adesso, non aveva più legami. Era ufficialmente un burattino senza fili, padrone di sé stesso.

Capitomboló subito. Non resse allo shock e svenne, privo di quella spina dorsale che nessuno aveva pensato potesse fargli comodo, quando l’avevano scolpito e levigato.Così la Fata Turchina l’aveva raccolto ed accolto nella sua casa. Gli aveva rimboccato le coperte e l’aveva lasciato al dolce oblio del sonno, quello ristoratore dove non sognare è un po’ non rischiare che gli incubi vengano a bussare alla porta della coscienza, a incrinare l’anima annebbiandola di truci spaventi, oscure paure.

Un burattino, dopotutto, non sa sognare.

***

La luce del sole si levava tenue, quella mattina. Era un’alba di fine ottobre. Un mattino bigio, nell’aria il profumo della pioggia, il suono delle onde scomposte dal vento, il mare era mosso.

Pinocchio dischiuse gli occhi lentamente, intorpidito. Lanugini e secrezioni della notte erano rugiada d’ingenuità e d’innocenza perdute. I medici della peste andarono a chiamare la Fata Turchina, ma lei era già pronta con un vassoio di caffè e biscotti al burro, previdente e premurosa come solo una fata sa essere. I dottori con le loro maschere dal becco lungo vollero prima parlarle in privato. Il Grillo Parlante cialtrò di rimorsi ed ancor più di rimpianti. Tentò di giustificarsi, dicendo che c’aveva provato, ma il paziente era già ad uno stadio troppo avanzato del male. La Civetta addusse la propria saggezza come una delle concause al propagarsi del male stesso. Dove mai s’era vista una tale cancrena, regredire per mero buon senso? Certo aveva dato alla Fata delle false speranze, e di questo, era oltremodo mortificata. Il Corvo si limitò ad assentire e a tacere. Sapeva bene che il suo ultimo gracidio sarebbe stato l’allarme della fine. Per qualche minuto, i tre battibeccarono prognosi, sentenziarono giudizi ovvi, infransero speranze. La diagnosi non era certo delle migliori e non lasciava adito a dubbi. La Fata Turchina sorrise loro cortese. Li mandò a casa, ringraziandoli per essere intervenuti con così poco tempismo. La parcella era alta, ma gliel’avrebbero rateizzata e con gli ammortizzatori sociali e gli indennizzi per i casi umani, se la sarebbe cavata con poco. Per la Fata Turchina, queste ed altre agevolazioni. La Fata fece loro notare che la clausola per i casi umani, non era applicabile ad un burattino. I dottori della peste storsero lievemente il becco ed annuirono, comprensivi. Avrebbero valutato se fosse possibile fare un’eccezione. Per la Fata Turchina, questo e altro. La Fata Turchina, sbrigate suddette scartoffie, si accinse finalmente a portare la colazione a Pinocchio. Pinocchio… dal canto suo… aveva sentito tutta la discussione. Ma credete che gli sia balenato anche per una sola frazione di secondo l’idea di alzarsi dal letto e partecipare attivamente alle decisioni sul proprio avvenire, chessò, esprimere la propria opinione, dire la sua? No, bambini. Neanche per idea. Pinocchio si cudduliava nel gran lettone comodo della Fata Turchina, procrastinando il momento in cui non avrebbe più potuto fingersi dormiente. Così, coi suoi occhioni lattei, l’espressione da cucciolo smarrito, quel buon tempone, quel finto tonto di Pinocchio si strofinò le palpebre di cera d’api e finse stupore.

Ebbe l’ardire di chiedere “Fata Turchina, allora, quando diventerò un bambino vero alfine?”

“Ma Pinocchio… davvero non l’hai ancora capito? Un burattino, che ha avuto il dono di essere insignito dal privilegio del tocco d’una fata, la fortuna d’impregnarsi della magia d’un divenire, e non ha saputo apprezzarli, continuando imperterrito sulla stessa cattiva strada lastricata di bugie e cose non dette… non diventerà mai un bambino vero. In effetti… non sei nemmeno uscito fuori dalla bottega di Mastro Ciliegia. Eccoti. Guarda lì, non ti vedi? Quel tronco bisunto e bitorzoluto, dimenticato là, in quell’angolo, in mezzo a tanti altri tronchi identici, anonimi, senza valore? Ecco, quello sei tu. Assieme ad altri fratelli di legno qualunque, proprio come te. Anzi, riflettendoci… non sono proprio come te. Loro, perlomeno, serviranno a qualcosa. Dalle loro venature, nasceranno orologi a cucù, tavoli, sedie, armadi, case di bambole, trottole, giostrine e giocattoli, e svariate altre invenzioni concepite per rendere più gradevole la vita agli esseri umani e chissà, magari restare nei loro ricordi, nei loro cuori. Ma non tu, Pinocchio. Tu, bambino mio, non hai mai veramente voluto partecipare alla vita delle altre persone. Fin da quando il tuo creatore, Geppetto, tentò di nutrirti di bucce di pera e libri e tu, ingrato, ci sputasti sopra. Fin da quando il tuo mecenate, Mastro Mangiafuoco, tentò di farti trovare la strada giusta, nel teatro delle marionette. Ma tu eri troppo poco espressivo e non sapevi come stare sul palcoscenico; eri troppo abituato a mantenere una maschera nella vita di tutti i giorni, un copione che era ormai parte integrante di te, per trasmettere qualcosa di autentico alla gente tra il pubblico. Fin da quando il tuo amico, Lucifero, aveva bisogno di te, e tu gli hai candidamente voltato le spalle, convinto che non prendere le sue parti, fosse l’unico modo per non perdere le tue. La prova del nove, poi, fu quando incontrasti me. E tante buone intenzioni, e tanti buoni propositi, e tante belle cose andate a farsi benedire. Rammenti cosa ne fu di me allora?

QUI GIACELA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI

MORTA DI DOLOREPER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO PINOCCHIO

E quindi, cosa aspettarsi da un simile pezzo di legno? Niente di più e poco di meno che sia buono per arder la legna. Questo, ancora, è un servizio che puoi rendere al mondo. Perciò brucia, caro Pinocchio! E ti auguro che bruciando, il fervore che non hai conosciuto in vita, arrivi alfine ai nodi e ai cerchi del tuo cuore di legno, se ce l’hai.”

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NON PERDIAMOCI DEL TUTTO

“E comunque vada tra noi non vorrei perderti del tutto. Quando sentirai di riuscire a parlarmi fatti sentire.”

Non perdersi del tutto. Ma che vorrebbe stare a significare? E ché, adesso le persone si perdono anche un pezzo per volta, a percentuali, a porzioni? Prima un naso, poi una mano, poi una bocca? Infine, come ultima cosa, i ricordi? Perdere i difetti, mantenere solo le virtù? Eliminare il brutto che c’è in tutti, salvando solo il necessario, solo il salvabile? Il tutto per la parte o la parte per il tutto. Perdersi per poi ritrovarsi. Perdersi e basta. Perdersi per non pensarci più. Come bere un bicchier d’acqua. Perdersi perché è più facile che aversi. E’ più facile perdersi che trovarsi, e mantenersi. Mantenersi, soprattutto. Mantenere integri identità e principi, ideali e ambizioni, sogni e visioni. Quelli condivisibili e quelli che non. Quelli che creano progetti in comune, proiezioni di mondi futuri possibili e lontani, poi non così lontani, solo potenzialmente realizzabili. C’è da metterci i mezzi. Quelli, invece, non condivisibili. Solitari e per loro stessa natura, non comuni né comunicabili. Perdersi e non parlarsi, non bisticciare, non raccontarsi, non condividere, non comunicarsi più. Perdersi per comunicare, a distanza, dietro i paraventi filtrati della civiltà, della nonchalance simulata, del buon viso a cattivo gioco, delle apparenze simulate, della maschera da mostrare, del costume e società, del sorriso di circostanza, della buona creanza, della ipocrisia colta in flagranza. Perdersi poco o perdersi molto, tutto d’un colpo, di botto, senza preavviso, senza countdown, in un baleno, come un fulmine a ciel sereno che ha squarciato uno status quo a colpi di qui pro quo, schianto nel buio, botta nel sonno, insopportabile sveglia, di quelle proprio i n s o p p o r t a b i l i che traumatizzano senza far acclimatare alla soglia labile e imperitura che separa il sonno dalla veglia, il facciamo finta che dall’adesso facciamo sul serio. Perdersi a poco a poco, con delicatezza, senza fretta, discendendo con discernimento lungo il declivio dell’edulcorato educato rispetto reciproco, il pendio della metabolizzazione, implicazione inalienabile del trapasso a una condizione differente che sprofondi nell’indifferenza generale di un non sentire affettato, appena appena apatico, a poco a poco mitigato nel normale, nel di norma così van le cose e non c’è niente che si possa fare se non rassegnarsi e perderci le speranze. Perderci. Noi. Voi. Loro. Essi. Egli. Lui. Tu. Io. Perdersi nell’oblio del “ho sentito dire che adesso fa, dice, pensa, lavora, cammina, esce, eccede”. Ecce l’ombra. Ecce il pezzo. Quel pezzo che si tentava a tutti i costi di tenere stretto tra le dita, di non lasciare andar via, di trattenere, imbrigliare, afferrare, ancorandosi ancora a precedenti reminiscenze di perseveranza caparbia e cocciuta, preservando il personale attaccamento alla perdita del perso perdersi, del proibito provare a procacciarsi un ultimo gheriglio di pastosa protervia sentimentale, di possibile panoramica retroattiva proiettata verso piccoli spiragli di pericoloso sperare di mantenere. Mantenersi. Perché è più facile, prevalentemente e preminentemente più facile è perdersi, che non mantenersi. Mantenersi, soprattutto. Mano nella mano, mollica dentro al pane, mantecarsi in un tutt’uno di meriti persi in incontrastati detestabili imbattibili demeriti. Masticando un malcelato volersi staccare a morsi pur di ingerirsi e non perdere il tutto, ma rubare qualcosa, anche di poco conto, purché digeribile. Un lembo di pelle, un dito del piede, un polso, un fianco, uno sfintere, un collo, un brandello di nuca odorosa. Un pezzo qualunque, una parte qualsiasi. La parte per il tutto o il tutto per la parte? Mantenere un pezzo, perché tenere unito il tutto è troppo difficile e bisogna scendere a compromessi pur di non perdere. Perché perdere il quasi tutto è sempre meglio che perdere del tutto, completamente, definitivamente, senza remissione di peccati o revisione di colpa. Così si perde. Per mantenere. Per tenere. Per tenersi. Si perde e ci si perde per non perdersi e prepotentemente si perdono le occasioni di non perdere neanche un piccolissimo punto nella retta infinita della pruriginosa pachidermica parte che perdona ma che non partecipa, che picchietta alle porte della partitiva tardiva presa di coscienza, ma che, particella perdente posta a pseudo principi di puntiglio puntualizzato e puntualizzante, povera di tutto, possedente niente, parca di peccaminosa volontà di mantenersi parte attiva della partita, non si mette in gioco, e non percepisce né prosegue né punta all’amore, ma a se stessa mente e perdendo si perde e ci si perde, se non del tutto, anche solo in parte, il tutto non è che una parte e una parte non è mai il tutto.

pp

L’onda che accarezza

è muta.

Il declivio del giorno

è a due passi scarsi

di camminata da qui.

Errante ebbra errabonda,

china

sulla spuma del tuo mare,

centellino da un calice

bianco vino, dorato

come i segmenti

sulle tue iridi, raggi

di ruote apollinee

al giungere d’una ferina e

micidiale Artemide

dall’arco incoccato

sui non ritorni.

 

L’onda che scivola

è sorda.

Non sente e non fa rumore

ma accompagna algida il bicchiere

come un becchino al camposanto.

Il lampione è della stessa crema

chiara del mio nettare,

ma non illumina.

E non parla,

come invece farebbe Humpty Dumpty.

I sassi, tinti di tutte

le tonalità della battigia marittima,

neanche loro parlano,

ma si lasciano avvolgere

dall’onda che viene,

da quella che segue.

Dall’onda che lascia

la terra natia. E salpa.

 

L’onda che accarezza

è dolce

come sovente sono i tuoi intenti

quando non li volgi a te solamente

e la bocca disegna orizzonti ancora

da definire, da orientare.

 

Ricopro le mie vecchie spalle

di lana e di glicine,

degli anni alle spalle;

mi copro degli anni

che rapaci attendono

rapidi come dardi scoccati

dal teso arco di Odisseo,

ripidi, me li vedrò sfilare  

sfiu – sfiu

sotto lo sguardo spento ed assorto.

 

Anche il gabbiano di Charles

fende quest’azzurrino scialbo

ed è muto.

Non parla neanche lui.

E tutto è pace

finalmente pace

e prurito alla pianta del piede

ed idioma tedesco

e luoghi

e non luoghi

mentre

l’onda che accarezza

è muta.

 

17/04/2015

[Abbràcciati]

[Ispirazione di riferimento: “Dormi”, Subsonica & “Glass slipper”, Dresden dolls.]

5

1° STROFA

 

Sciogli i tuoi occhi

in quelli che vuoi

ma già sai

come tutto conduca

allo stesso

vicolo cieco

 

2° STROFA

Sleghi le mani

in quelle di lui

ma già sai

come tutto

andrà a finire

 

RIT:

Diametralmente opposte

le aspettative con la realtà

Forse in un altro posto

qualcosa accadrà

Forse in un’altra vita

qualcosa ti salverà

 

3° STROFA (irregolare)

Congiungi i piedi al cuore

ma già sai

piombando giù

non farà più alcun rumore

E lieve la notte

sulla tua identità

 

(PRE RIT)

Superba ironia che ti coglierà!

 

RIT.

Diametralmente opposte

le aspettative con la realtà

Forse in un altro posto

qualcosa accadrà

Forse in un’altra vita

qualcuno ti salverà

 

 

(special)

 

Ma già lo sai

il vuoto che prende

quando cala il silenzio

quando scende il sipario

e tutti vanno a casa

mentre tu…

tu rimani sola.

E lo specchio e là

e sconti non farà.

 

4° STROFA

Sciogli i tuoi occhi

in quelli che vuoi

ma già sai

come tutto conduca

da qualche parte

né arte né parte

e rimani. Con. Te.

 

(Abbràcciati)

 

Probabile cambio registro nuova parte, forse punk, forse rock spinto, da inserire:

 

Dimentica

le radici che non hai

Annulla

i sentimenti che non provi

Solo così tutto andrà bene

E il resto

è solo una vecchia scarpa

dalla suola schiodata

Tutto il resto

è solo ciò che resta

E non è niente

Non vale nessun volo pindarico

della mente

 

Sciogli i tuoi occhi

e non riaprirli mai più

tanto sai

 

che non ne vale la pena

Hai già visto tutto

Ogni ipocrisia umana

la viltà

la putredine del bianco

Solo ossa

Ciò che resta

è bianco sporco

E’ ossa

PAVENTI, PAVONE

Paventi, Pavone, portenti, e precedenti piccoli pretendenti, pusillanimi proci, in convivio al pantaleico pasto presso il protiro della tua potestà.

Paventi, Pavone, partenze, paste vitree ai placidi plumbei orizzonti poseidonei della tua pochezza di fantasia pocherrima ed integerrima.

Paventi, Pavone, parti improvvisi della mia poco praticantemente pratica – mente, tu paventi pargoli, trasposizioni partorite dal mio palpitante cuore, potenti parametri di paragone eccelsi che chissà dove vogliano andare a parare (per quali porti lontani), passerelle d’amanti primatisti, parate di podisti in pessime condizioni precarie, prepotentemente competitivi, pesantemente presenti per (petuamente) te solo.

Paventi, Pavone, pose procaci e prose premesse di porno provocazioni, pinte di pianti, precetti libertini, pozze di porridge che prende il palato e lo fa pastoso di piscio.

E piantala.

Paventi, Pavone, pretendi, pavoneggiando precipitose posizioni pro – otelliche, imponendo possenti ponti di pallosa impotenza verbale, predando una pazienza che imperitura, semi – impassibile, persiste, pestata e predata di peso proprio da una prole peripatetica di prodigi prodighi di litigi peri patetici.

Paventi, Pavone, paventi sempre, tu, lasciandoti precipitare dai palmi preziosissime porzioni di particolarissima felicità (apparente, è probabile, però possibile), procacciando pareti di distanze, profanando pericolanti ma pericolosi princìpi, postumi di petrolio parentale.

Paventi, prode Pavone, permeato di perduta passione spossata.

Paventi, e paventando, mi perdi.

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IL SORSO DEI DANNATI

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Un sorso, uno solo

Un sorso per i dannati.

Abbiate pietà e lasciateci marcire

in mezzo al lezzo di vomito ed ebbra.

Lì, tra le cosce del vizio,

lì, tra gli effluvi dell’euforia.

Non tendeteci la mano per sollevarci.

Ve la rifiuteremmo.

Ripudiamo la vostra salvifica compassione,

fuggiamo la vostra misericordia interessata

da buon borghese, come fa

il mostro col crocifisso,

il girovago con la carità.

Non tendeteci la mano.

Un bicchiere, piuttosto.

Quello sì che aiuterebbe.

Non volete?

Rifiutate con ipocrisia

quest’ultimo desìo

d’un condannato alle fiamme?

Giacché è lì che andremo.

Lo sappiamo quanto voi.

Lo sentiamo fin dentro le ossa,

il tristo fato che c’attende.

Coi suoi tentacoli ansiosi, c’attende.

Ansimanti.

Siamo stati noi a condurlo fin qui,

col fetore immondo del nostro animo putrefatto.

Dinanzi ai vostri occhi

scavati, increduli,

che chiedono venia, garbatamente,

chiedono di non assistere

a quest’ennesimo stupro.

Proprio non volete tenderci

quest’amaro pezzo di vetro

colorato del verde smeraldo dell’assenzio,

dell’ambra pregiata di Daniele?

Nemmeno adesso,

nell’irrecuperabile ora del decesso

che non farà mai più ritorno?

Ebbene, saremo noi a prendercelo.

Con la forza no,

non s’addice a por’anime quali siamo.

Con l’inganno piuttosto; l’intrigo,

il Teatro.

Dateci in pasto una maschera,

un ruolo, una marionetta.

Dateci un gaudente pubblico di saltimbanchi.

Non ne saremo mai sazi.

 

Un sorso, un altro ancora signore.

Ve ne prego, signora.

Pietà. Pietà per un peccatore infame.

Pietà per gli spergiuri,

gli illusi illusionisti,

gli affabulatori dalle guance tinte,

i ladri e gli adulteri.

Gli omicidi, quelli no.

Che fummo noi, noi prima degli altri,

ad inneggiare al valore delle lame,

così lucenti, così sfuggenti.

Così taglienti.

E proprio noi, ultimi ma in lizza,

ne pagammo lo scotto.

Mai più punte affilate nella realtà.

Solo in sogno.

E cos’è questo se non un sogno?

Un sogno dentro a un sogno

dentro ad un sonno a sua volta preda d’un sogno

illucido, forse.

Vi era un volta un re, seduto su un sofà…

Cos’è tutto questo, mio signore,

mio Giullare, se non un folle viaggio

nei meandri di questa mente decadente,

contorta dai colori dell’arcobaleno

e del niente?

Ora, delle note accompagnano il suo cammino

irto e precario

in un altro luogo, in un altro evo.

Voci di sirene l’attirano verso la rovina.

Quelle voci domani condurranno me alla mia.

Ma sarà un discendere dolce

verso gli inferi,

a braccetto con le nostre ballate immortali.

Adesso, cantano per lei.

Io le sento.

Arcangeli e satanassi ed anche uomini: i peggiori.

Per lei che, sola, seppe udirli

coll’anima accesa e il cuore saldo

la mente limpida, scevra.

Che il cielo a lei sia lieve quanto l’immortale pietra.

 

Ho bisogno di pioggia

 

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Ho bisogno di pioggia

perché ho sete di conoscenza.

 

Ho un bisogno impellente

dell’odore di pioggia battente

sulla nuda terra, sulle grondaie,

che precipita ai vetri delle finestre chiuse,

per impregnarmi le viscere.

 

Amo la pioggia

perché cado con lei ad ogni goccia.

L’amo per quel che è adesso

e non per il sole che seguirà.

Ne amo il più puro e languido grigiore

e non il tripudio di colori che porterà.

 

Ho bisogno di pioggia

per quel che svela

e non per quel che cela, se lo cela:

i contorni foschi ed aurei dimenticati

di cose e di persone,

oltre il nostro mero scorgere quotidiano.

 

Ho bisogno di pioggia.

Che sia fitta e scrosciante,

che dia suoni nuovi e rassicuranti

a questo udito martellato da futili rumori moderni

di un’epoca scadente volgente al termine.

 

Ho bisogno di udire il suo crepitio a lungo,

con ritmo cadenzato e senza fretta.

Un battere regolare

come il cuore d’una madre.

 

E nell’ora ultima,

quando le nuvole gremite di bigia H2O

s’addenseranno sul limitare del lunedì

e il riflesso tremoleggiante d’una Luna

che ascende alla volta cobaltata

come lumino del due novembre, spirito sospeso,

avrò bisogno d’un sentiero di foglie secche bagnate

per attutire i miei recalcitranti passi.

La confortevole, l’avvolgente, la materna pioggia.

 

E’ Lei che voglio accanto

prima di dormire.

Settembre 2011 

TOMORROW (Melograni Marci)

INDICAZIONI: 

Da leggere a voce alta aumentando gradualmente la velocità fino a far rotolare le parole una dietro l’altra similmente a macigni in caduta libera da un dirupo. 

 

Accompagnamento sonoro: The mouse and the model sfumata con Sex change finendo con The Kill, The Dresden Dolls. 

Era notte. Le tue schegge interiori, frammenti

spezzati di vetro [frattaglie eterogenee]

scalfivano con lieve noncuranza la superficie lucida

dilatata, delle tue pupille [lontane].

 

Schegge di specchi, riflessi di mondi finiti

profondi come pozzanghere.

Pozzanghere profonde come fognature.

Io, mi ci perdevo dentro.

 

Tu, frattanto, blateravi nonsense.

Erano schegge di botti e fiaschi violacei,

vinaccio. Fondi inesplorati di bottiglie.

Vuote. Pezzi rotti del mio Ego, smarriti

 

per cieli plumbei. Infranto.

Il mio Ego fece “bada bum” ruzzolando dalle scale.

Scheggiato in miriadi di schegge (tu l’hai).

Ognuna di esse, rifletteva un dramma annacquato.

 

Come potesti non notarlo, dimmi?

Vetro alle fiamme, fiamme all’oblio.

Era notte e il vetro tornò sabbia.

Ma sabbia sporca e scostante era, e scivolò

 

in mezzo a dita vischiose e deformi.

Le dita, aguzze, acuminate… tremolarono.

Luci d’un cero mortuario quasi spento, consunto

sino allo stoppino, sino allo sfinimento.

 

Le dita. Tremolanti. Bramarono.

Le fiamme. Tremolanti. Tacquero.

E poi, spente… ci spensero

mentre il vento di rabbia si morse le labbra.

 

Era notte. E che notte, buffo ragazzo!

Granelli di schegge emersero ed eran freddi,

eterni. Mortali. La condanna all’incomunicabilità

fu irrevocabile. Solitudine,

 

gemella lungamente rinnegata:

un castigo certo. Un fallimento:

lo scotto da pagare per aver perso me stessa

nei tuoi specchi bui di fanciullo depravato.

 

Schegge di specchi, riflessi di mondi finiti

profondi come pozzanghere.

Pozzanghere profonde come fognature.

Io, mi ci ero persa dentro.

 

Era notte. E i miei lunghi boccoli dal colore

del sottobosco ottobrino celavano la bocca golosa

di mirti. Misi un belletto rosso vermiglio.

Per te. Per te solamente.

 

Era notte. E che notte, buffo ragazzo!

Le unghie incongrue tinsi di cremisi

per i tuoi lividi specchi lucidi e dilatati.

Per loro soltanto. E cosa importava

 

se il pregiato calice era oramai vuoto

carente del rossore del vino grumoso

oramai spoglio, di te alfine degno,

cosa importava

 

se non ero assai portata per verbi

allocuzioni, allitterazioni, numeri e vermi

e se a fraseggiare lasciai a desiderare?

E tu, dimmi: cosa importa adesso

 

se  le note ottenebrano un pensiero

impuro di tenebra, indotto e abortito

e se i tuoi specchi non riflettono che nullità?

Cosa poteva mai importare

 

se blu, rossa, pallida eterea o bruna terra io

comparivo in quel frangente ai tuoi occhi?

Un frangente da solo, è assai parca garanzia d’avvenire

ai tuoi occhi sornioni. Del resto, cosa importava

 

sai tu dirlo, controverso eroe al rovescio,

paladino di formule fumose e forzate,

se fu la tirannia del “Tomorrow”

ad orchestrare i tuoi gesti da baby ventriloquo?

 

Tormentoso tamburo tribale

Tomorrow Tomorrow TOMORROW  

domani domani DOMANI

fallace farlocca promessa   

 

[tic tac tic tac. Tac tac]

 

Ma era notte. Le lancette, baffi di Gatto,

proseguirono il loro presagito percorso.

L’intuizione mi tradì e le note, ahimè, non mentono.

Il vetro… crollò. Sui tuoi infidi specchi

lucidi e dilatati, miseramente crollò.

 

La notte fuggiva adagio ed io,

io misi un belletto vermiglio

per accedere alle porte chiuse

del tuo banale serraglio sentimentale.

 

Il mio volto non più giovane come un tempo.

La mansarda vista al rovescio. Il tetto.

Erano un mondo fantastico per illudersi, sai,

mio caro, strano ragazzo. Invischiati in melograni marci.

 

Ma in fondo… era notte. Che notte, buffo ragazzo!

Era ottobre. Uno qualunque.

Le emozioni spandevano il lezzo dolciastro

del tamarindo, delle ortiche croccanti sotto piedi nudi.

 

Fragranze stomachevoli invasero i nostri sensi avviluppati.

L’aria stessa ristagnava calcinacci e polvere,

lenzuola intatte profanate da pudichi arti sfiorati.

Solo specchi deformati di scuri abissi intrecciati.

 

[Ma eran truccati!]

 

Misi un belletto vermiglio,

il più forte che avessi, per te.

Per te solamente, non lo rimetterò

oggi. Tomorrow. Il cambiamento è TOMORROW. 

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CONCUSSIO AMORIS

INDICAZIONI: 

Da leggere a voce alta con accompagnamento sonoro di “Tempest”, dei Deftones. 

 

“Fu un ricatto vile

disperato

la tua preofferta

d’amore retribuito.

Volevi un cuore…

un cuore comperato.”

 

Andò bussando al suo cuore

quel povero cavaliere

disperato al suo capezzale

chiedendo in dono sol poche ore.

 

Per molte notti e giorni e sere

senza l’ausilio d’alcun giornale

restò sotto a quel portone

chiuso come era il di lei cuore.

 

Lei impassibile, lei statua carnale,

ascoltò una per una le preghiere

senza batter ciglio affatto

lei obbrobriosa, lei femme fatale.

 

In una lenta sequela d’ingiurie

si sciolse il cavaliere.

In una lenta sequela d’ingiurie

giurò sul suo amor fedele.

 

E giurò, giurò che lì sarebbe stato

fino alla fine, fino alle esequie,

di quel suo corpo malandato

afflitto e sconfitto da vizi e miserie.

 

E giurò, giurò che sarebbe rimasto

pur trovandola ebbra mattine e sere,

lui l’avrebbe carezzata solamente

dopo ogni azione da demente.

 

E giurò, giurò che sarebbe giunto

ad ogni dilemma, ad ogni tragedia,

lui cavaliere, lui scaloppino,

senza macchia e senza inedia.

 

E giurò, giurò che avrebbe corso

come antilope braccata d’un leone,

come leprotto ghermito dalla lupa,

ad ogni bravata, ad ogni rimorso,

ad ogni singolo gesto cretino

di fronte al suo ennesimo stupro,

lui le sarebbe stato vicino.

 

E, sappiate, nemmeno allorquando,

stanca di noia e rosa dal vizio

e un remoto Altrove ricusando,

la bella dama un tempo lucente

avrebbe, di certo, bandito la mente

e paventosa, anima vigliacca,

si sarebbe abbandonata alla risacca

dell’oblio e del dispiacere,

cieca all’arte, all’amore, al bene,

avvezza solo a putride megere,

caduta nel baratro, l’antro delle fiere;

 

Nemmeno allorquando dal demone

tormentata, senza tregua anelata,

si sarebbe persa in prati d’anemone,

smarrita, umida di lussuria,

tra le spirali d’un altro,

altro malanno, altra furia;

 

Nemmeno allorquando, al torneo medievale,

lui avrebbe al fin deposto armi, armatura, pugnale…

“GIAMMAI”, stridette alla dama,

“la resa è ignominia sovrana,

per Voi incontemplabile brama!

Piuttosto mi vendo scudo e mantello,

dignità, orgoglio, amor proprio,

io li ripudio, li elevo ad orpello,

dal giusto amor che a Voi tributo.

Giacché ci siamo, madama Statua,

vi intrigherebbe l’offerta d’una autonomia

un’indipendenza danarosa, seppur fatua? 

E non pensiate, vi prego, anima mia, 

sia per corrompervi, per trattenervi mia!”

 

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E’ questo un mesto madrigale

che narra d’un carnevale.

Una sfilata senza bellezza

d’un Modello di repressa grandezza.

 

Andò bussando al suo cuore

quel povero cavaliere.

Disperato, al suo capezzale,

strappandole a forza un paio d’ore.

 

Un minuto, uno soltanto,

per udir suppliche miste a pianto.   

Languendo alla sua fine

non fu mai chiaro chi fu realmente morto,

chi solamente vile.

 

Errabondo, con molte pretese,

il cavaliere rimase al capezzale

della sua dama dall’alma mortale,

per infinite notti e giorni ed ere

e senza l’ausilio d’alcun giornale.

 

Senza speranze, con grande ardore,

senza macchia e senza pudore,

non si smosse il nobile, l’audace,

il povero ed il buon diavolo,

col suo amor mordace.

 

Poi gli anni trascorsero

ed è cosa che non v’auguro,

d’esser il monumento vigile e saturo,

che assisté alla vil morte d’un passero

una fine meschina e vile da macero.

 

Ma andò bussando,

ricusando al suo cuore

quel povero cavaliere.

Un buon diavolo, davvero un gran signore.

Chiese venia per sol poche parole.

 

Ma la dama statuaria

rimase impassibile

la sua espressione… indefinibile.

Riso crudele, colmo di fiele.

 

Maschera mortuaria,

di lui non fu colpa,

lei, marmo, fuggì

come da una morsa.

 

Più non la si rivide

e lui solo ne sognò il ritorno,

perduto ed infermo,

l’angoscia lo permeò dintorno.

 

In una lenta sequela d’ingiurie

si sciolse quel cavaliere.

In una lenta sequela d’ingiurie

giurò sul suo amor fedele.

 

Poi la dama fuggì,

non resse tal lieto peso,

e come andò e finì

lo sa solo quel cavaliere appeso.